Giunti a quest’ultima tappa del nostro percorso, siamo portati a concludere che il cinema ci ha restituito bellissime immagini di paradiso proprio attraverso i giardini, là dove si muove la nostalgia degli esseri umani per un mondo perduto. Ecco allora presentarsi opere che inscenano i desideri del ritorno, tra luoghi preservati dalla corruzione del denaro e della civiltà occidentale perché nascosti in sezioni spazio-temporali inaccessibili oppure in luoghi che si configurano come un dono improvviso tanto semplice da raggiungere, quanto insperato.
È un altro eden quello che si spalanca dinanzi ai nostri occhi nella visione del Nuovo mondo di Terrence Malick.
La cinepresa è manovrata e condotta in movimenti lenti, ampi, incessanti, che legano con audacia dettagli naturali ad azioni umane, sguardi a gesti emersi dai lunghi fili d’erba dei prati o scolpiti nelle foreste, nelle acque con la purezza di cose viste come attraverso la limpidezza di un lago profondo.
Simbolo di un tale eden, spesso sommerso dal silenzio o reso muto dall’affiorare della musica, è la giovane indiana Pocahontas. Il suo nome è indicibile, come quello di una divinità misteriosa e propizia; non è un’Eva e se lo è, non è lei a corrompere, ma il suo stesso amore per John Smith e soprattutto i coloni invasori il cui primo atto è quello di erigere palizzate, tanto concrete quanto interiori. Il fortino degli inglesi, separando un dentro da un fuori, trasforma la verde, limpida terra in fango, sporcizia e infezione. Pocahontas viene introdotta al suo interno, ‘educata’, imprigionata dentro abiti che ne sacrificano lo splendore aurorale.
Il nuovo mondo è un inno alla terra, un canto dell’anima, una celebrazione dell’acqua, fonte della vita; finché la ripresa non scivola in alto prendendo il volo, come a mani giunte.