Il labirinto, che sia di pietra o vegetale, comporta un percorso difficile, tortuoso, composto di una sola via che, girando e rigirando, conduce a un centro, ma esiste anche un labirinto che è un intrico di strade in cui ci si può smarrire perché una sola è quella che porta alla meta. Quest’ultima è la forma più inquietante perché, come nell’esistenza umana, la conclusione del viaggio non è scontata.
In Shining di Stanley Kubrick (MOVIE) le pareti vegetali non si mostrano meno compatte di quelle costruite in mattoni o in pietra, simili a una fortezza arborea: impossibile fenderle, incomprensibile o rischioso il percorso. E la meta? A volte è senza risposta come l’atto iniziale, altre volte si svolge come una metafora del tempo. In un labirinto autentico lo smarrimento e le speranze umane si scontrano con l’apparenza inumana e sempre uguale di alte pareti di siepi sagomate, corridoi senza sbocco, mandala monotoni e sconvolgenti.
L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais ci appare come un prototipo del mondo come labirinto.Siamo anche noi anonime figure nello spazio ottico del cinema, dapprima spazio architettonico di linee, poi modellino teatrale nel quale si animano dei corpi fantasma, infine scatola scenica del giardino francese con cespugli sagomati. Vi si sprigiona una terribile razionalità nel lento attraversamento dei corridoi e delle stanze.
Di per sé il grande parco in stile Versailles, entro cui sorge il palazzo-albergo di lusso, non è un labirinto, ma labirintico è lo sguardo che lo indaga.