Anne Sullivan, parzialmente cieca, recupera la quasi totalità della vista dopo diverse operazioni. Impara a comunicare nel linguaggio dei ciechi e dei sordi a partire da una rielaborazione della propria esperienza di vita.

Anne si pone subito la questione di sapere come entrare in contatto con Helen: il nodo centrale è quello della comunicazione, delle sue modalità e dei mezzi adeguati per facilitarla. Anne deve infatti fare i conti con le resistenze di Helen: è proprio la resistenza di quest’ultima che spinge Anne a innovare e ad usare una serie di mediazioni e di mediatori/ facilitatori della comunicazione:

  • le vibrazioni provocate dalla valigia sulle scale all’ingresso della casa, la bambola, gli indumenti, il lasciarsi toccare il volto, il linguaggio dei gesti, il toccare gli oggetti di vita quotidiana, l’imparare a rispettare le regole di convivenza sociale in momenti significativi della giornata (come il pranzo o la cena), il contatto corporeo e l’esercizio dei sensi attraverso le percezioni provocate dall’acqua, dall’aria, dal cibo;
  • esercizi motori per coordinare i movimenti, orientarsi anche nello spazio, esercitare la volontà e la concentrazione.

Anne insiste molto sull’importanza dell’acquisizione della comprensione, dell’associazione tra oggetti, segni e parole. Vuole insegnare a Helen la parola: la parola struttura il linguaggio interiore e funziona come un “attrezzo mentale” che permette di organizzare le emozioni, controllare le pulsioni e dare un significato ai propri vissuti.

Alla storia della bambina sordo-cieca Helen Keller e del difficile rapporto con la sua educatrice Anne Sullivan, si ispira il lavoro cinematografico del regista e produttore statunitense Arthur Penn, dal titolo Anna dei miracoli, del 1962.