All’interno delle case di correzione, i detenuti venivano posti in condizione di isolamento rispetto al contesto sociale da cui provenivano e, costantemente sorvegliati dal personale, erano impegnati in attività organizzate per spingerli a ripensare e pentirsi degli errori commessi, per poter cambiare abitudini e stile di vita.

Sulla base di un modello che ben presto si diffuse in quasi tutte le istituzioni, i reclusi venivano educati (e ri-educati) a condurre uno stile di vita più ordinato e disciplinato.

La pratica di alcune “ritualità” nel momento dell’ingresso, come ad esempio l’obbligo di indossare l’uniforme al posto dei propri abiti, aiutava a ribadire, sul piano simbolico, la cesura rispetto alla vita appena trascorsa, era un invito a predisporre nelle loro anime un nuovo atteggiamento. Il totale isolamento dal mondo esterno si materializzava tramite le imponenti mura che delimitavano questi luoghi, al cui interno, in ogni stanza e durante qualsiasi attività, vigeva la regola del silenzio.

Anche l’attenzione quasi ossessiva riservata alle pratiche igieniche assumeva un aspetto simbolico, dal momento che attraverso la pulizia dei corpi si intendeva ripulire le anime dei reclusi. Le pratiche rieducative imposte ai reclusi ruotavano attorno due capisaldi: la rigida osservanza religiosa e l’apprendimento di un lavoro.

Si prevedeva quindi che l’operosità e la totale sottomissione al personale di sorveglianza avessero sostituito e sradicato definitivamente l’oziosità e l’insubordinazione. L’attività lavorativa aveva una triplice funzione: scandiva la giornata dei reclusi in modo rigoroso; contribuiva al sostentamento della struttura; e, infine, addestrava i reclusi a una professione, favorendo un ottimale reinserimento nel tessuto socio-economico.

Si trattava dunque di un percorso educativo esemplare, molto concreto ma al tempo stesso simbolico, scandito da pratiche e consuetudini estremamente rigorose nei tempi e nelle norme, finalizzate da un lato a vigilare, contenere, correggere e castigare, dall’altro a riplasmare le personalità dei reclusi.