Tornano alla memoria due grandi nomi, quelli di Bruno Munari e di Silvio Ceccato: con entrambi la nostra scuola non ha mai voluto o saputo fare i conti davvero. C'era, nella loro utopia pedagogica, qualcosa che è ben presente in questa sezione della mostra: l'idea che la scuola non dovesse risultare l’ammuffito contenitore che il primo ottobre spegneva le speranze autentiche maturate nei mesi precedenti. E, in fondo, pur ignorandone i nomi, non c'era maestro che non fosse al loro fianco quando doveva tristemente accogliere i nuovissimi alunni nelle varie Sezioni Baretti, nelle stalle riadattate del maestro deamicisiano, nelle abitazioni del maestro Sciascia, nelle torbe dimore di Bernardini. In questa sezione la terribile verità si rovescia. Qui vengono presentate le scuole che i bambini attendevano, le aule che avrebbero sentito di loro proprietà, i banchi su cui si sarebbero seduti con orgoglio e passione.

Si nota subito il doppio registro su cui i benemeriti ideatori di una scuola doppiamente nuova si sono mossi. C'è lo spazio della sperimentazione pura, quello più vero e gradevole: qui si cerca l'azzardo e non si teme la provocazione.

Questo ambito è anche pervaso da un'ansia di verità: scuole diverse, aule quasi individualizzate, stili in sorridente concorrenza, identità ritrovate proprio perché negate. Poi c'è la riflessione funzionalista che parte da un verissimo presupposto, profondamente dickensiano: a scuola si deve soffrire perché così è fatta la scuola. I funzionalisti accettano la battaglia, cercano la comodità dell'uso dove altri volevano il piccolo orrore progettato dal primo ottobre. Con sofferenza si deve dire che questa è la sezione della mostra in cui l'Utopia è assente. Stava così scomoda che è andata via: restano le preziose memorie di chi la amò davvero e la volle sui banchi.

 

Antonio Faeti